LA RADICE OPERAIA DELLA RESISTENZA Collocare in primo piano gli operai può sembrare un omaggio “ecologico” ad una delle tante specie in estinzione.E invece è semplicemente un obbligo nel confronto della verità storica , di un momento cruciale e drammatico della vicenda politica del nostro paese in cui la classe operaia e i lavoratori giocarono un ruolo essenziale .La Resistenza , cioè quella lotta consapevole che una parte del popolo condusse contro il nazi-fascismo e che ha ridato al nostro paese la dignità e il diritto di ricostruire la Democrazia , non potrebbe essere immaginata senza il rapporto inscindibile e vitale con l’azione politica delle grandi fabbriche del Nord . Gli operai furono davvero la principale retrovia indispensabile alla lotta armata delle formazioni partigiane assieme al sostegno popolare che cresceva attorno all’antifascismo con la caduta verticale di consenso al risorto regime fantoccio di Salò .Brescia, indicata dalla sorte come capitale della neo-repubblica di Mussolini, in questo senso, rappresentò una realtà particolarmente significativa. Altissima era la concentrazione dell’industria militare, come per altro degli apparati repressivi e polizieschi. E tutto ciò non fu indifferente per la condizione degli operai e dell’ iniziativa antifascista .Gli addetti all’industria erano passati da 94.700 negli anni’30 ha ben 130.000 nel 1943, all’interno di un processo che vide progressivamente estendersi l’area della produzione a fini bellici. In realtà quell’eccezionale espansione industriale, se venne drogata dalle commesse belliche fu possibile anche e soprattutto perché godette di un’utilizzo della manodopera del tutto discrezionale, svincolata da qualsiasi regola e garanzia, sia sul mercato del lavoro che all’interno della fabbrica.E’ questo un dato su cui non ci si può non soffermare se si vogliono comprendere le motivazione dell’atteggiamento degli operai in questi anni, del loro progressivo distacco dal regime fino a dislocarsi su posizioni nettamente antifasciste; se si vuole capire, insomma, il senso vero della partecipazione dei lavoratori alla Lotta di Liberazione, degli scioperi messi in atto nel’ 44, del valore e anche delle difficoltà, in particolare a Brescia in questa protesta. Ma vi è un altro dato ancor più significativo su cui vale la pena di riflettere , anche in relazione ai tentativi oggi in corso di riabilitazione del ventennio: il tipo di organizzazione e le condizioni di lavoro in fabbrica accentuarono ulteriormente lo sfruttamento e la subordinazione degli operai, pressochè indifesi di fronte al potere del padronato e delle gerarchie aziendali (quando non direttamente delle autorità di polizia o militari che sorvegliano le produzioni belliche). Al riguardo numerose testimonianze di vecchi militanti operai a soprattutto numerosi documenti presso l’Archivio di Stato ( fonti provenienti dall’interno dello stesso regime e quindi non sospette di parzialità) confermano un quadro della condizione operaia di fabbrica in cui l’intensità dello sfruttamento e la coercizione autoritaria avevano raggiunto livelli intollerabili: all’interno delle aziende vigeva una rigida disciplina imposta dalla militarizzazione che, in particolare durante la R.S.I., interessò gran parte dell’apparato produttivo. Le relazione fra capitale e lavoro subirono, per le caratteristiche proprie dell’economia bresciana, un’ulteriore distorsione in senso autoritario, subordinando totalmente le maestranze all’arbitrio ed al potere delle gerarchie aziendali e dei datori di lavoro. La fabbrica in sostanza, molto spesso diventò una vera e propria caserma e il regime aveva cercato anzi di diffondere fra gli operai l’idea che anche e soprattutto sul fronte della produzione si decidevano le sorti del conflitto. Inoltre, in nome delle necessità della guerra e all’ombra delle protezioni e delle committenze dello Stato, si raggiunse in quel periodo probabilmente la più alta intensità nello sfruttamento dei lavoratori. (Ad esempio, per far fronte alle aumentate necessità riguardanti lo stato di guerra “gli orari di lavoro furono notevolmente aumentati fino a 72 ore settimanali” mentre “le filande assumevano apprendiste dai dodici ai quattordici anni per scarsità di manodopera”). Del resto, il sindacato fascista era per gli operai uno strumento pressochè inutilizzabile, autoritario e gerarchico ( gli stessi fiduciari d’azienda erano nominati dall’alto dai dirigenti provinciali), legato strettamente al partito, ideologicamente refrettario alla conflittualità nei confronti degli industriali, impegnato in attività di assistenza e soprattutto di propaganda al fine di creare fra i lavoratori consenso al regime e spirito di collaborazione all’interno della fabbrica. Ma fuori dalla fabbrica le cose non andavano certo meglio: gli operai, essendo a reddito fisso, erano sottoposti più degli altri alle restrizioni imposte dalla guerra, alla penuria di generi di prima necessità e di combustibili, alla fame decretata dalla “tessera” , all’impossibilità di accedere al mercato nero per il vertiginoso aumento dei prezzi … senza considerare il pericolo dei bombardamenti che incombeva sulle fabbriche a produzione bellica. Era naturale che in questa realtà sociale e umana di sofferenza e di grave disagio sorgesse forte, diffuso un movimento di ostilità e di opposizione al fascismo. Un movimento che, essendo fatto di uomini in carne ed ossa doveva misurarsi con la necessità della sopravvivenza quotidiana e ancor più con la minaccia della repressione che pervadeva ogni anfratto della società bresciana: un formidabile apparato poliziesco di militi repubblicani o direttamente di nazisti vi era dispiegato perché non si sarebbero potuti tollerare atti di insoburdinazione proprio nel neo risorto regime. Ciò nonostante gli operai di Brescia, come nel resto dell’Italia del Nord, sotto la direzione dei partiti antifascisti, in particolare dei comunisti, riuscirono a costruire una ragnatela di organizzazioni clandestine per la formazione politica di una nuova coscienza democratica, per la rinascita dell’iniziativa sindacale, per alimentare con propri uomini e con mezzi e armi la lotta partigiana le azioni di sabotaggio e. Un’attività apparentemente meno clamorosa di quella militare, ma di straordinaria rilevanza, come il rigetto dei tentativi di recupero del consenso messi in atto dal regime di Salò nel 1944 con la “Socializzazione corporativa” delle fabbriche naufragati clamorosamente nell’aperta diffidenza degli operai bresciani ,come gli scioperi del marzo, del luglio-agosto, del dicembre ’44 e dell’aprile ’45 come la costituzione in ogni fabbrica dei Comitati di Liberazioni Nazionale e la predisposizione del presidio degli stabilimenti per la difesa degli impianti industriali minacciati dalla disperazione distruttiva dei nazisti nell’imminenza della catastrofe. La democrazia conquistata in Italia ha avuto ed ha dunque queste solide radici popolari, operaie, che, nonostante gli attuali fastidiosi tentativi di rimozione, appaiono tutt’ora vitali e ci permettono di sperare ancora.
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