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Walter Veltroni

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IL  CINEMA, LA RESISTENZA E  LA RESISTENZA DEL CINEMA



Il rapporto fra il cinema italiano e la resistenza è sempre stato forte e profondo; robusto al punto che ,per un lungo periodo, in una parte pubblico l’idea di questo tipo di film ha coinciso con quella del neorealismo. Quest’ identificazione, tutt’altro che priva di significati , anche profondi, ha alle origini motivi ricollegabili sia alla sorte del paese, sia ad alcuni grandi film realizzati nell’immediato dopoguerra. Infatti, in nessun’altra nazione europea ad eccezione della ex-Iugoslavia,la lotta armata antifascista ha assunto un respiro e ha stabilito radici popolari così profonde quanto in Italia. Non in Germania ove il fenomeno resistenziale è stato un fatto d’èlite, non in Francia ove seppur su scala molto ampia ha conservato sempre un carattere militar- patriottico, non nei paesi del Centro Europa ove vari elementi della propraganda nazifascista, prima fra tutti l’antisemitismo, trovarono terreno fecondo anche in parte dai ceti popolari.Tutto questo ha fortemente influenzato sia gli autori sia una parte del pubblico, quantitativamente minoritaria, ma qualitativamente determinante per la formazione della cultura complessiva del paese.Del resto le condizioni materiali d’Italia di quegli anni, con le ferite della guerra ancora aperte, facilitarono l’identificazione fra cinema resistenziale e realtà quotidiana. Questo spiega come alcune delle opere che hanno fatto grande quella stagione del nostro cinema, siano diventate, con il passare del tempo, veri e propri documenti sociali e politici. Ciò è vero per testi di grande respiro, primo fra tutti “Roma città aperta” (1945) di Roberto Rossellini, ma anche film abitualmente meno citati come “O sole mio”(1645) di Giacomo Gentilomo, “Il sole sorge ancora” (1946) di Aldo Vergano, “Achtung! "Banditi”(1951) di Carlo Lizzani e molti altri, forse artisticamente non del tutto riusciti, ma significativi di un settore comune che per lungo tempo fu tutt’uno col fare cinema. Dopo questa prima fase ci fu, a partire dall’offensiva andreottiana tesa a far sì che “i panni sporchi” fossero lavati in famiglia, un lungo periodo di silenzio durato sino alla svolta degli anni sessanta. In quel momento,ancora una volta in sintonia con gli umori che si agitavano nel paese, il cinema italiano riscopre la Resistenza.Il fatto avviene in significativa coincidenza con la sollevazione popolare che accompagna il  tentativo - allora abortito! -  di rimettere in gioco i neofascisti del MSI facendoli partecipare come puntello determinante al Governo Tambroni; E’ un “secondo tempo” che segna un approccio più dialettico ai fatti. Cadono i toni meccanicamente esaltativi e roboanti e lo sguardo dei registi si addentra in osservazioni più sfaccettate, in analisi meno schematiche. Nascono film come il “Il Generale Della Rovere”(1959) di Roberto Rossellini non a caso tratto da un racconto di Indro Montanelli, che ha al centro Giovanni Bertone un imbroglione  e un profittatore di guerra che, davanti alla brutalita’ nazista ritrova una sussulto di dignità e di umana grandezza. Simile la prospettiva che sarà adottata da altri registi come Dino Risi (”Una vita difficile”, 1961), Nanni Loy  (Un giorno da leoni”, 1961), Giuliano Montaldo (“Tiro al piccione”, 1961), Luciano Salce (“Il federale”, 1961), Gianfranco De Bosio (“Il terrorista”, 1963). Vanno ricordati in modo particolare, i lavori di Giuliano Montaldo e Luciano Salce che, per primi, ebbero il coraggio  di guardare oltre la barricata, portare in primo piano coloro che avevano aderito alla Repubblica di Salò per sbandamento o imbecillità. Fra queste opere un posto particolare lo occupa “La ragazza di Bube” diretto nel 1963 da Luigi Comencini sulla falsariga dell’omonimo romanzo di Carlo Cassola. All’epoca il film fu duramente attaccato dalla critica militante scottata dalla “delusione di Cassola” e il “qualunquismo di Comencini”. Rivista oggi, quest’opera è di tutt’altro spessore e lo smarrimento che trascina Bube dalla lotta partigiana al crimine in tempo di pace, appare il segno di uno sbandamento generazionale che va ben oltre il puro dato sociale o politico. L’ex- partigiano appare il naufrago di una stagione dominata dalla violenza e che non sa adattarsi al ritorno alla ragione. Perciò bene ha fatto Bruno Rinaldi a dedicare una delle sue acqueforti a quest’opera quasi dimenticata e, in quegli anni, oggetto di discussioni e furiosi attacchi; e che questa scelta poggi su una solida comprensione del valore di quell’opera lo dimostra proprio lo stile e la qualità del lavoro grafico con il manifesto del film coronato da oggetti diversi, quasi visione di una vetrina o squarcio di una angolo di solaio in cui sono state riposte cose che credevamo inutili e che oggi ci ritornano fra le mani ricche di valore. Vi è, poi, un’altra fase del rapporto fra cinema e Resistenza, un “terzo tempo” che coincide con gli anni più cupi del terrorismo, quanto vengono realizzati alcuni film – non molti in verità, ma di grande interesse – che ruotano attorno al tema della “resistenza tradita” quale causa remota, ma pesante dell’esplodere della violenza brigatista. Titoli come “Uomini contro”(1980) di Valentino Orsini o, pur in un quadro molto particolare, “Maledetti vi amerò”(1980) di Marco Tullio Giordana e “La festa perduta” di Pier Giuseppe Murgia, fanno parte di questo discorso. Se ci guardiamo indietro ci accorgiamo che il rapporto fra cinema e resistenza, assume valore non solo e non tanto in quanto dato storico, ma come nucleo  di valori comuni a una generazione o a parte di essa, un identico senso morale, verrebbe da dire parafrasando la definizione data da Roberto Rossellini del neorealismo. Un corone sottile e tenace che qualche volta sembra scomparire perdersi nelle nebbie e nel frastuono dei tempi, per poi riapparire ricco di nuove potenzialità, di altre proposte di sguardo. C’è qualcuno disposto a giurare che fra non molto il “berlusconfinismo” non partorirà una nuova voglia di visite, anche cinematografica, alla Resistenza?     


 
 
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